Chi legge "esamini tutto, ma ritenga solo ciò che è giusto".

La mente non è un vessillo da riempire, ma un fuoco da accendere.

venerdì 25 giugno 2010

IUS 21


Dove mi trovavo (?), il tempo assumeva un valore diverso. Si ha l'impressione di vivere un film al rallentatore, ma, parallelamente, trascorre il nostro tempo soggettivo. Mi sentivo in una sorta di sdoppiamento controllato, come se vivessi da due postazioni differenti, quasi all'unisono. Mi passarono davanti/dietro, di lato e sopra, spezzoni di immagini, venti sonori, volti e figure geometriche svolazzanti; erano i primi segni di vita, o almeno sembravano tali, che incontrai. Nella struttura sottile del tempo esistono cose appena abbozzate, riflessi e riverberi, che poi ritroviamo come forme residuali in determinate condizioni sulla terra; volgarmente li chiamiamo fantasmi. Qui, la struttura sottile assume un'estensione particolare. Un mese lì, equivale a tre ore circa nella nostra dimensione. Provare per credere.
Il paesaggio era incantevole, fatato. Il cielo blu cobalto, mi sembrava meno sterminato, la volta era, come dire, più raccolta, meno alta. Dopo un po' le figure che mi aleggiavano intorno si dileguarono improvvisamente. Qualcosa stava per succedere. Intanto, decisi di muovermi. Guardavo con curiosità i miei piedi, le gambe, e sentivo un effetto strano, come di leggerezza, di facilità nei movimenti. Il prato all'inglese, era soffice, sì, ma c'era minor impatto nel passeggiare; mi sosteneva maggiormente che sulla terra, come se rimbalzassi. Non era la minore gravità, non saprei dire perché, però aveva a che fare col tempo rallentato. Mi osservavo da fuori e in perfetta sincronia percepivo il mondo dietro la mia fronte – ma forse un leggero scarto divideva le visioni. Ero stimolato al massimo, sentivo ogni cellula del mio corpo vibrare, rispondere.
La stazione che avevo di fronte, non aveva nulla dell'astroporto, ma che dico, anche di un terrestre aeroporto. Non vedevo rampe di lancio, piste o quelle strutture tipiche dove partono e arrivano aeroplani. Infatti, non si decollava né si atterrava: si entrava o si usciva. Era un varco interdimensionale fuori da ogni possibile immaginazione. Ero ad un crocevia cosmico per tutte le destinazioni, piani dimensioni mondi, un ventaglio di possibilità che il sottoscritto, tra i pochi uomini contemporanei, aveva avuto in dote dalla fortuna di scegliere. Scegliere per andare dove? Un dubbio atroce mi scosse. Scandurra non mi aveva dato indicazioni in proposito, o almeno non le ricordavo. Decisi di recarmi in quella cittadella inerpicata lassù e così avrei chiesto a qualcuno ragguagli. A prima vista lo scalo distava alcuni chilometri in linea d'aria. Tra me e la stazione, vi erano prati all'inglese e alberi raggruppati in buon ordine. Non vedevo un sentiero, ma realizzai che la linea retta mi avrebbe portato facilmente alla meta. Stupidamente feci una balorda considerazione: e se avessi incontrato il cappellaio matto, o comunque un tipo strano dall'idioma incomprensibile e dall'atteggiamento ancora più illogico, come mi sarei dovuto comportare?
Niente di tutto questo avvenne. Incominciava per me l'avventura; potevo ben dire di essere il ragazzo più fortunato del mondo. Quanti prima del sottoscritto avevano avuto la possibilità di esplorare l'ignoto? Credo pochi, qualcuno ne aveva fatto un resoconto camuffato da romanzo, altri avevano taciuto. I viaggi dell'anima di mistici e sciamani, erano ben catalogati, analizzati, inseriti nella fenomenologia della storia delle religioni; ma ben poco c'era che riguardava l'esperienza totale, l'immersione in varchi interdimensionali, quella che stavo facendo grazie ad un maestro unico nel suo genere, ammesso che vi fosse un genere come quello.
Ero avvolto in uno sconfinato silenzio, ne ero assorbito. Forse per spirito di conservazione, richiamai l'attenzione e la necessaria tensione, sebbene confidassi nella bontà di Scandurra che mai mi avrebbe mandato in un luogo da cui non sarei stato in grado di cavarmela, ma ero pur sempre un viaggiatore in una contrada incognita, dove le categorie spazio-tempo, la presenza a me stesso, la coscienza ordinaria, erano rivoluzionate. Avanzavo in quello stato duplice di osservazione, non sentivo il mio peso abituale, camminavo lentamente o forse mi vedevo lentamente camminare.

Dovrei scrivere molto di più di quel che sto qui abbreviando, poiché le tante cose che mi si presentarono meriterebbero una serie di capitoli di un ipotetico libro. Quanto sto ora scrivendo è la premessa necessaria per localizzare il punto dimensionale nel quale si verificò il fenomeno mitico che mi investì: si tratta di un posto reale, da me raggiunto e che influì decisamente sulla mia visione della realtà, sull'interpretazione di casistiche aliene e su come leggere il mondo.

L'aria si faceva fresca. Mi accorsi della presenza di una sorgente, sul limitare del boschetto di destra, e poiché avevo sete, mi diressi verso una polla d'acqua. Piegandomi, immersi cautamente la mano: era fredda e leggerissima. Allora ne raccolsi un po' sul palmo della mano e vi accostai le labbra. Era frizzante e buona, difficile valutarne la composizione. Notai che non vi era sottobosco né cespugli, gli alberi erano simili a faggi, emanavano profumi mai sentiti prima. Intravidi ad un certo momento qualcosa che si muoveva a poco più di cinque metri da me. Una specie di roditore, un topo gigantesco, grosso come un maiale, dal colore marrone scuro, mi fissava e alzava la sua coda anellare. Mi spaventai, lo confesso. Stava masticando non so cosa, poi emise una specie di rutto-squittio baritonale e si girò allontanandosi lentamente, sculettando. Il mio primo incontro con un animale di un'altra dimensione. Se i topi erano così grossi in quel mondo, figuriamoci i gatti. Alzai gli occhi al cielo, profondo, brillante. Finalmente realizzai: era giorno ma non c'era nessun astro. Allora, piano piano, si formò nella mia mente un pensiero, una domanda: dietro quel cielo c'è Dio?Sentii dei fruscii tra le foglie e restai con le orecchie tese per capire che cos'era quel rumore. Quel bosco mi sembrava più grande che visto da fuori. Girai intorno ad un grosso faggio e scorsi un fiume, non più largo di 20metri che divideva il bosco. Placido, sembrava un canale artificiale per quanto era preciso nelle sue anse e argini: un fiume disegnato da un pittore iper-realista. Ma mentre facevo queste elucubrazioni, una vampata di luce intensissima apparve come dal nulla proprio in mezzo al corso d'acqua. Una sfera perfetta dal diametro di 10/12metri, mutava con velocità folle di colore; ne distinsi solo alcuni, rosso blu giallo verde oro, gli altri non saprei come identificarli. Non emetteva nessun suono. Stava lì sospesa a 2metri dalla superficie del fiume ed io, sulla riva e con la bocca aperta, trattenevo il respiro. Stava lì per puro caso? Era un u.f.o. che mi dava il benvenuto? No, quella sfera cangiante, era qualcosa che non aveva nulla a che fare con le mie ipotesi iniziali. Il mito si era manifestato, attraverso un simbolo, una potenza. Elettricità pura, anzi, la sua sorgente.

giovedì 17 giugno 2010

IUS 20




Nel mondo in cui mi trovavo, la cenere di quella antica galassia estinta, evidentemente, assumeva connotazioni impensabili, racchiudendo il ricordo di un'energia immane non del tutto esaurita. Un'onda, letteralmente un'onda di non so quale acqua, proveniente non si sa da dove, fresca, rigenerante, mi investì. Fui innaffiato da una secchiata cosmica – è il caso di dirlo – che mi rimise in piedi e, cosa curiosa (ma cosa non lo era?), non mi bagnò. Sveglio, lucido, riacquistai la visione globale e di fronte a me, immobile e maestoso il disco verdenero, simbolo ignoto che dovevo svelare. Mi avvicinai e lo toccai. Al tatto era morbido, come di gomma. Una leggera pressione lo deformava, poi ritornava al suo stato iniziale. Un disco gommoso? Mah, la mia impressione era quella di vivere in una dimensione psichedelica, un paese delle meraviglie senza cappellai né stregatti, dove le coordinate spazio-tempo, la logica ordinaria, erano messe a dura prova. Parlai troppo presto. La cosmonave ebbe come un sussulto e si formò intorno ad essa un alone luminescente azzurro, pulsante, che si estendeva per tutto il salone. Quel cambiamento sembrava l'avvisaglia di una manifestazione; un incontro? Fui invaso completamente da quella luce, ma non mi impedì di entrarci dentro. Non compresi subito se vi ero entrato o mi aveva inghiottito. Un'idea dapprima confusa poi, lentamente, più chiara e definita, si fece strada: la cenere galattica donatami da Scandurra, non era né un corroborante né un placebo sui generis, ma un piroforo per oltrepassare un portale. Il disco non era un'astronave, o almeno non solo; quello che sembrava un velivolo extraterrestre, in realtà fungeva da scalo dimensionale, per usare un'espressione a me cara in quegli anni. Quindi, una sorta di ponte cosmico mi si era parato davanti, per permettermi con l'ausilio della cenere di accedere verso orizzonti lontani. Questo particolare stato unitivo, che sentivo crescere in me, una sorta di sesto senso permanente, produceva una condizione psicosomatica e animica mai provata sino a quel momento. Mi sentivo investito da un'energia sconosciuta e da influssi che misteriosamente si traducevano nella mia mente in parole e immagini, o come oggi si suole dire, in informazioni. Da quella fatidica esperienza, ebbe inizio per me una forma di ricerca indotta, che lasciava dietro di me, per sempre, il modello deduttivo del comune pensare.

Per Scandurra, esistono leve magiche fatte di materia, dalle apparenti funzioni infantili o marginali, che permettono il passaggio tra i mondi. Li detengono i discendenti di un ceppo antico, gli Atlantidei, proiezioni mutanti dell'uomo futuro. Lui era a pieno diritto il discendente di quella superciviltà di semi-dèi. E la sua modesta condizione sociale, secondo i canoni odierni, era un'ottima rappresentazione del cosiddetto briccone divino, secondo i canoni antropologici. Ritornando ai simboli di trasformazione, per il passaggio attraverso i mondi dimensionali; è una concezione bellissima, esaltante, che qualcosa di semplice e quindi di vero, possa permettere l'accesso da uno all'altro di questi mondi. Schegge proiettate dalla scomparsa del mitico continente, si sparpagliarono 12mila anni fa. Sorgenti di energia, pacchetti di fotoni primordiali vennero assorbiti da elementi di materia tra i più dissimili. Quando il maestro mi rivelò il segreto, ne rimasi colpito, disorientato: una biglia colorata, una trottola, un pendolino, un anello, potrebbero aprire un portale o una botola del baratro senza fondo, verso dimensioni molteplici. Maniglie di accesso, preziosissime e pericolose, da custodire come la vita, ereditate e conservate con estrema cautela da un'anonima talenti che si unisce ogni volta che il caso lo richiede.

Lui le chiamava 'spolette' (ma per attivarle bisognava conoscerne il nome specifico, la vibrazione), ce ne sono migliaia e disseminate (ma non del tutto perdute) sul nostro pianeta, tante quante sono le botole d'accesso dell'ipersfera, il baratro senza fondo che si affaccia sugli universi tangenti. Io ne possiedo una. Il loro valore, come potete ben comprendere, è inestimabile; per me, semplicemente sono senza prezzo, nel senso che sono gratuite. Fate un calcolo approssimativo: quanti potenti ne vorrebbero entrare in possesso, ad ogni costo e a qualunque cifra? Chi possiede le spolette, possiede il mondo e gli eventuali corridoi di accesso ad altre dimensioni. Ciò che vado raccontando ha dell'incredibile, anzi, dell'impossibile, ma non mi preoccupo affatto del diniego degli scettici, e non per superbia, perché insieme ad altri fortunati entronauti, abbiamo viaggiato in lungo e in largo fra dimensioni, mondi e stati multipli, abbiamo vissuto esperienze bellissime e terribili e nessuno, proprio nessuno, potrà mai togliercele. Forse meno mi si crede e meglio è: le persone senza interessi ordinari e dagli intenti elevati, mi crederanno o sospenderanno il giudizio. Non sto qui a far proseliti, non voglio fondare né una setta né un movimento spiritualista. Semplicemente racconto quanto mi è accaduto e, soprattutto, voglio far conoscere un maestro, umile, semplice, ma unico, un uomo eccezionale su cui è caduto un pezzettino di Dio e che ho avuto l'onore di incontrare. La spoletta è ancora in mio possesso e tuttavia non la possiedo, la uso secondo la consegna di Scandurra.

Di fronte a me appariva in tutta la sua grandiosità, la fantastica stazione cosmica, una cittadella arrampicata su di un picco montano: minareti, cupole, palazzi dalle forme tondeggianti, vetrate multicolori, immensi padiglioni sotto un cielo di luce brillante. Sensazioni a centinaia, a migliaia mi arrivavano. Voci suoni profumi tutti in simultanea. Mi trovavo come in una tavola fuori testo di un libro di Tolkien o di Lord Dunsany, ma era tutto vero, reale, magico. Il professore di Oxford, forse conobbe Scandurra...
Nei momenti topici della vita, chissà in base a quale curiosa combinazione psicologica, ti vengono in mente pensieri banali: sarei tornato a casa per colazione?

sabato 12 giugno 2010

IUS 19

Mi trovavo in un immenso salone ottagonale, con altissimi pannelli-parete di cristallo rosso - in tutto simili alla porta fluida - attraversato da una luce viva e tranquilla che immergeva ogni cosa in un perpetuo succedersi di albe e tramonti (lo constatai in seguito). Il salone poteva esser grande come un palasport senza tribune. Quali mani avevano scolpito quel meraviglioso sito? Il pavimento era fatto di legno – almeno così sembrava - color marrone, dalle mille sfumature e dalla superficie levigata e morbida. Quel posto incredibile, artificiale ma che ti dava una sensazione di simbiosi con la natura di tipo steineriano, era circondato da un paesaggio collinare tipico del centro Italia, ma sullo sfondo si intravedevano montagne altissime color porpora e viola, non proprio comuni dalle parti mie. L'aria era frizzantina e profumata di fiori; non vi saprei dire quali, ma era una sensazione molto intensa. Non c'era altro nella grande sala. Mi domandai a cosa potesse servire tanto spazio; guardai l'orologio: fermo. Mi avvicinai alle pareti e provai a toccarle: lo stesso effetto del portale semisolido rosso che avevo attraversato con una certa difficoltà. Che fare? Fuori c'era una terra bellissima, niente di ostile, anzi. La tentazione di uscire era forte. Però mi bloccai, forse dovevo attendere, cosa o chi non lo sapevo, ma qualcosa mi suggeriva così.

Tempo addietro, in un pomeriggio tranquillo giù a bottega, senza clienti né seguaci, Scandurra aprì il palmo destro della mano e mi fece vedere un mucchietto di cenere, chiedendomi cosa pensassi che fosse.
“Semplice cenere”, risposi senza pensarci su.
“Già, ma è cenere di una galassia estinta. Tutta qui, in un pugno. Se la stringi, potrai sentire il suo dolore prima della fine. Eppure, qualcosa di potente, di infinito, rimane ancora in queste poche tracce. Qualcosa di grande permane sempre, come dopo la nostra morte.”
Era la prima volta che il maestro mi accennava alla morte. Non compresi subito quanto mi stava dicendo. Galassia estinta, mah. Forse era una metafora. Scandurra percepì la mia titubanza.
“È autentica cenere di una antica galassia. Più antica della Via Lattea. Me la diede il mio maestro e ora la do' a te. Conservala, portala sempre con te, ti servirà prima o poi.”
Tutto mi sembrava surreale come tante cose che riguardavano Scandurra. Non mi ci abituavo ancora alle sue stravaganze. A volte mi prendeva in giro, bonariamente. Questa volta sembrava serio. Cosa voleva dirmi? Cenere di una galassia. Quanto dura la vita di una galassia? La Vibuti, cenere sacra materializzata da Sai Baba, poteva avere delle analogie con quella del maestro? Glielo chiesi.
“Le domande giuste che mi dovresti fare sarebbero: cosa rimane di una galassia quando muore? e poi: chi è in grado di raccorglierne i resti?”.
Gli risposi che erano sicuramente le domande più pertinenti e attesi le risposte di Scandurra. Invano.
Mi lasciò cadere in mano la cenere e sebbene impalpabile sembrava pesante, anzi, la sensazione era quella di tenere in mano del mercurio: solida liquida sfuggente.

Il tramonto ammirato dai pannelli era pazzesco. Riflessi dorati, rossastri, polarizzati si confondevano in un mix di colorazioni mai viste prima di allora. La cosa più incredibile – abuserò spesso di questi aggettivi – era che producevano un effetto sul mio corpo, curioso, bello, esaltante: la luce composta mi pizzicava avvolgendomi, la sentivo coprirmi. Questo effetto non finiva lì; avevo ora la percezione mia e dell'ambiente in cui stavo, globale, cioè vedevo dappertutto, davanti dietro, dai fianchi, sopra sotto. A raccontarla tutta però, ciò mi fece ondeggiare a tal punto che caddi. Mi girava la testa, anzi, non la sentivo. I sensi mi si stavano confondendo, sopra sotto davanti dietro, i profumi fortissimi, i colori che piccavano. Credevo di avere la febbre alta. L'io cosciente era dislocato fuori dal corpo, oppure era così allargato da comprendere interno/esterno. Poi, dopo 4 o 5 minuti o chissà quanto, mi ripresi lentamente. Di nuovo in piedi, tonico, gagliardo. La visione globale era uno spettacolo, altro che il 3D. Ora, comunque dovevo decidermi: attendere o uscire alla conquista di quel mondo magico? Fremevo, una spinta interiore interagiva con un altra più mentale, sentivo di poter volare, correre. Ero lì lì per uscire, quando un sapore di metallo e un ottundimento auditivo mi fermarono, alzai la testa – non mi ero ancora abituato alla visione globale – e vidi un vascello fantasma (così li chiamava Scandurra), insomma un disco volante – negli anni settanta lo chiamavamo ancora così – che scendeva verso di me. Era poco più piccolo del diametro del salone e questo mi obbligò a spostarmi verso i pannelli. Il disco si fermò a mezzo metro da terra, senza apparenti sostegni. Ero elettrizzato come potete ben immaginare, ma senza il benché minimo timore. Era giunto il mio turno per incontrare l'ignoto. Io solo con altri esseri cosmici. Non c'era Scandurra – sebbene senza di lui sarei stato ancora ad invidiare le mirabolanti avventure di Adamsky o a sognare le Cronache Marziane di Bradbury - e così mi sentivo padrone del mio destino. Io, Angelo, avevo un incontro ravvicinato del III tipo, dove e con chi lo avrei saputo presto.

Il disco verdenero, saturnomorfo, non emetteva rumore, non aveva segni di riconoscimento, la sua superficie sembrava ruvida; intanto, il sapore metallico aumentava, più invasivo che mai. Una forte pressione alla testa, insieme ad un senso di nausea, furono segnali anticipatori di una serie di fiotti di sangue che mi fuoriuscirono dalle orecchie. La situazione si faceva critica. Cercai con un fazzoletto – le mamme negli anni settanta ci ricordavano sempre di portarne uno quando uscivamo di casa – di detergermi. Speravo in cuor mio che le cose potessero prendere una piega positiva, come sembrava all'inizio. Subentrò la paura. La mia percezione speciale, la visione globale, ora diventava problematica. Tutto stava girando intorno a me. Perdevo le coordinate alto basso profondità, suoni sapori sensazioni cambiavano repentinamente. Una fitta feroce allo stomaco e alla tempia, simultaneamente, mi fece piegare e contorcere. Ricordo che gridai aiuto, ma riuscii ad emettere solo un rantolo. Invocai Dio, il dolore era tremendo, insopportabile. Istintivamente, misi la mano in tasca e cercai la cenere della galassia estinta, conservata nel portatessera. Non so perché lo feci, se per spirito di conservazione – ma come poteva aiutarmi un mucchietto di polvere? - o per disperazione. Credevo di potermi sorreggere da solo tra mondi alieni, camminando senza grucce fra dimensioni tangenti, oltre ogni più sfrenata immaginazione. Ma nessuno nasce imparato e io non potevo fare a meno del maestro. Proprio in quel momento toccai con mano, è proprio il caso di dirlo, uno dei più grandi misteri di Scandurra.

giovedì 3 giugno 2010

IUS 18


Scandurra sosteneva che Viterbo, insieme ad altri luoghi fatidici sparsi per il mondo, erano ponti dell'Universo, portali verso scali cosmici. Uno di noi, fissato con le filosofie orientali, aveva ribattezzato questi posti, Sevagram. Sevagram è il nome di un villaggio indiano, nello stato del Maharashtra, già sede dell'ashram del Mahatma Gandhi. Il nome sevagram significa, in hindi, villaggio di servizio. E proprio questo svolgeva Viterbo, un servizio di accesso.
Non fu difficile credere a quanto asseriva il maestro. Le cose che vedevo e vivevo erano oltre ogni immaginazione. Proprio qui, nella mia città avevo l'opportunità unica di accedere a mondi e dimensioni come le descrivevano i viaggiatori mistici, gli sciamani, gli scrittori veggenti, i maghi. La stessa fantascienza del ventesimo secolo, aveva ripreso nelle forme adeguate allo spirito del tempo, i temi dell'esplorazione galattica, l'ultima frontiera oltre i confini terrestri. Verso gli anni sessanta, la sci fi si diresse verso altri lidi, da quelli dell'esplorazione esterna alle esperienze di alcuni coraggiosi viaggiatori alle prese con i mondi interni della coscienza. La letteratura ebbe un ulteriore sussulto. Una nuova espressione documentaristica, romanzesca, speculativa, fece il suo ingresso trionfante sul panorama culturale un po' borghese e stitico, quando non violentemente ideologico. Il Mattino dei Maghi, fu il libro chiave di questa svolta copernicana, forse ben più di quanto si aspettassero i due autori francesi, Louis Pauwels e Jacques Bergier. “Un'opera che getta un ponte tra il fantastico e il reale, tra la magia, la mistica e lo spirito moderno”, così recitava il sottotitolo nell'edizione italiana a cura di Sergio Solmi. La prima edizione Gallimard datava 1960, quella italiana Mondadori, il 1963. Fu un fulmine a ciel sereno. Grazie a questo libro molte persone, di tutte le età e culture, ebbero il loro testo sacro, magari demitizzante ma tosto, intrigante, aperto ad ogni strada della conoscenza. I piani cognitivi si avvicinavano, passato e futuro si congiungevano. Atlantide, i dischi volanti, gli alchimisti antichi e moderni, i superpoteri psi, si ritrovavano in un mix lussureggiante, dalle atmosfere caleidoscopiche. Si era riaperta una porta, non solo simbolica e culturale. Soprattutto il pirotecnico Pauwels, pagano (sebbene convertitosi alla fine del suo percorso, al cattolicesimo) ed ex allievo di Gurdjiev, riuscì a scuotere le fondamenta del piattume occidentale, lanciando segnali per i naviganti nelle terre incognite. Noi ci abbeverammo da questa fonte e grazie alle sue aperture sul fantastico, sul mitico, sulla scienza di frontiera, ci mettemmo nelle condizioni ottimali da poter incontrare Scandurra: un personaggio che non avrebbe sfigurato tra quelli citati da Pauwels e Bergier, anzi. Quello che stavo facendo, oltrepassare i limiti spazio-tempo trasformando me stesso, era la migliore ricezione di quel messaggio.
Non avevo più una struttura biopsicofisica ordinaria, ero unificato. Il mio punto-coscienza era esteso ed espanso: onda-sorgente oltre lo spettro sensoriale. Anche la paura contribuì a realizzare questo mio stato, lo confesso. Si radunano forze, sentimenti, aspettative, volontà, in una sintesi superiore.

Tentai di toccare la porta cristallina, pensando di trovare un ritorno di forza. Pensavo di sentire la durezza del cristallo. Pensavo così, ma le cose stavano diversamente. Era oleosa e plastiforme, vi penetravo con tutta la mano. La sensazione era curiosa, in apparenza sembrava compatta, in pratica era molle. Non realizzai che potessi essere io a trovarmi in una condizione speciale atomica e animica, quindi oleosa e plastiforme: mi venne in mente subito dopo che l'attraversai con tutto il mio corpo. Mai come in questo caso potevo definire il mio, come un corpo fluidico. Il dentro e il fuori, io e la realtà che mi circondava, eravamo comunque cambiati. Come in un grande acquario pieno di olio, mi muovevo lentamente, quasi a sobbalzi, la gravità non era più incombente. Mentre mi inoltravo attraverso quello spazio rosso semi-liquido, mi venivano alla mente pensieri di rivalsa, un po' stizzosi nei confronti di alcuni coetanei che mi canzonavano per le mie fisse col mondo dell'occulto. Adesso mi trovavo a vivere un'avventura straordinaria, lontana dall'esperienze della maggior parte degli esseri umani. Sulla punta della piramide, mi sentivo qualcuno...

Come capitava ogniqualvolta 'mi allargavo', una voce, un ricordo di Scandurra mi ridimensionava.
“Se nasci falco, hai il dovere di volare alto, affrontare le correnti e il mirino del cacciatore che vive in basso. Ognuno ha la frusta per il culo suo”.
Già nei primi tempi, mi profetizzò lo scenario della mia vita che mal compresi e men che meno mi ci preparai.
“Sarai uno di quei rari uomini felici, a cui è concesso di esistere in un sogno da sveglio. Diventerai un apritore di strade perché altri possano percorrerle. Oggi nascondi il tuo segreto, lo difenderai contro tutto e tutti. Domani lo svelerai al mondo. Se costruisci un ponte, loro verranno.”
La mia felicità la avrei dovuta condividere con più persone possibili. Una missione in piena regola. Già ho accennato che Scandurra delineò, per sommi tratti, il grande cambiamento che il mondo avrebbe affrontato intorno all'anno 2012. Ci diede delle consegne. Ognuno avrebbe dovuto adempierle in tempi diversi, ma entro quella data nevralgica. Periodicamente ci ricordava quest'incombenza, ma inizialmente non le attribuimmo molto peso. Erano così lontani quei termini. Il tempo però non si è fatto aspettare. Tutto scorre così velocemente. Il punto di svolta è imminente e più vicino di quanto il calendario segni.

In quella sorta di budello vischioso, sempre più trascolorante verso il rosso scuro, trovai serie difficoltà di equilibrio. Svolazzare in un liquido denso e al tempo stesso solcato da una corrente ascensionale, un vento che mi innalzava, era un'esperienza strana, più da pesce di fondale che da giovinotto assetato di conoscenza. La conoscenza era anche questo, invece: trovarsi in un ambiente nuovo e alieno, che faceva il paio con un sentore interno di emozione e delucidazione. Mi prese una forte agitazione. Incominciava il timor panico. Avevo serie difficoltà di respirazione. Me ne accorsi in quel momento che inghiottivo quel liquido densamente strutturato. Tosse, nausea e vomito in sequenza veloce. Sentivo una pesantezza progressiva che mi cresceva dentro. Affondai lentamente, inesorabilmente. Pensai alla fine. In che modo morivo? Dove terminava la mia vita? Di nuovo mi invase uno scoramento infinito.

Una sala circolare di dieci metri di diametro, scolpita nella roccia, illuminata non si sa da dove, era la mia nuova sede. A pancia in giù, sopraffatto dalla stanchezza, la gola come una fornace, ero vivo proprio perché sentivo dolore. Vuota la stanza, vuoto il mio stomaco. Mi alzai e a sorpresa notai che i miei abiti erano asciutti; niente dimostrava che fossi passato dalla zona rossa. Indubbiamente il servizio di lavanderia e asciugatura era eccellente. Chi erano i solerti padroni di casa? Cercai un qualche segno di riferimento sul muro, nel piancito. Niente che mi conducesse ad una qualche risposta, niente, nemmeno una porta. Ma allora da dove ero entrato? Nessuna fessura o piano mobile. Prigioniero, ecco che cos'ero, prigioniero di una setta di folli adoratori di chissà quale divinità lovecraftiana. Di nuovo la paranoia. Scandurra non mi avrebbe mai mandato allo sbaraglio, tanto meno in una trappola senza uscita. È possibile che di fronte ad ogni ostacolo, davo fuori di testa? Improvvisamente il pavimento insieme al soffitto incominciarono a ruotare in sensi contrapposti. Questi spostamenti non producevano alcun rumore. La loro velocità sembrava quella della lancetta dei secondi di un orologio. Poi, tutto si fermò di colpo, ma non rischiai di cadere come sarebbe stato ovvio. E si aprì un portello al centro del soffitto, da cui discese una passerella, forse metallica, fino a terra. Non vi erano dubbi, qualcuno voleva che vi salissi sopra. Così feci. Misi prima il piede sinistro e poi quello destro e mi resi conto che l'inclinazione era di almeno il 70%. Ma non dovetti elucubrare più di tanto, perché si mosse e mi innalzò lentamente verso l'alto. Sembrava una scala mobile. Intanto il soffitto si era aperto del tutto e nemmeno me ne ero accorto, ma quello che vidi non lo avrei mai più dimenticato.