
Dove mi trovavo (?), il tempo assumeva un valore diverso. Si ha l'impressione di vivere un film al rallentatore, ma, parallelamente, trascorre il nostro tempo soggettivo. Mi sentivo in una sorta di sdoppiamento controllato, come se vivessi da due postazioni differenti, quasi all'unisono. Mi passarono davanti/dietro, di lato e sopra, spezzoni di immagini, venti sonori, volti e figure geometriche svolazzanti; erano i primi segni di vita, o almeno sembravano tali, che incontrai. Nella struttura sottile del tempo esistono cose appena abbozzate, riflessi e riverberi, che poi ritroviamo come forme residuali in determinate condizioni sulla terra; volgarmente li chiamiamo fantasmi. Qui, la struttura sottile assume un'estensione particolare. Un mese lì, equivale a tre ore circa nella nostra dimensione. Provare per credere.
Il paesaggio era incantevole, fatato. Il cielo blu cobalto, mi sembrava meno sterminato, la volta era, come dire, più raccolta, meno alta. Dopo un po' le figure che mi aleggiavano intorno si dileguarono improvvisamente. Qualcosa stava per succedere. Intanto, decisi di muovermi. Guardavo con curiosità i miei piedi, le gambe, e sentivo un effetto strano, come di leggerezza, di facilità nei movimenti. Il prato all'inglese, era soffice, sì, ma c'era minor impatto nel passeggiare; mi sosteneva maggiormente che sulla terra, come se rimbalzassi. Non era la minore gravità, non saprei dire perché, però aveva a che fare col tempo rallentato. Mi osservavo da fuori e in perfetta sincronia percepivo il mondo dietro la mia fronte – ma forse un leggero scarto divideva le visioni. Ero stimolato al massimo, sentivo ogni cellula del mio corpo vibrare, rispondere.
La stazione che avevo di fronte, non aveva nulla dell'astroporto, ma che dico, anche di un terrestre aeroporto. Non vedevo rampe di lancio, piste o quelle strutture tipiche dove partono e arrivano aeroplani. Infatti, non si decollava né si atterrava: si entrava o si usciva. Era un varco interdimensionale fuori da ogni possibile immaginazione. Ero ad un crocevia cosmico per tutte le destinazioni, piani dimensioni mondi, un ventaglio di possibilità che il sottoscritto, tra i pochi uomini contemporanei, aveva avuto in dote dalla fortuna di scegliere. Scegliere per andare dove? Un dubbio atroce mi scosse. Scandurra non mi aveva dato indicazioni in proposito, o almeno non le ricordavo. Decisi di recarmi in quella cittadella inerpicata lassù e così avrei chiesto a qualcuno ragguagli. A prima vista lo scalo distava alcuni chilometri in linea d'aria. Tra me e la stazione, vi erano prati all'inglese e alberi raggruppati in buon ordine. Non vedevo un sentiero, ma realizzai che la linea retta mi avrebbe portato facilmente alla meta. Stupidamente feci una balorda considerazione: e se avessi incontrato il cappellaio matto, o comunque un tipo strano dall'idioma incomprensibile e dall'atteggiamento ancora più illogico, come mi sarei dovuto comportare?
Niente di tutto questo avvenne. Incominciava per me l'avventura; potevo ben dire di essere il ragazzo più fortunato del mondo. Quanti prima del sottoscritto avevano avuto la possibilità di esplorare l'ignoto? Credo pochi, qualcuno ne aveva fatto un resoconto camuffato da romanzo, altri avevano taciuto. I viaggi dell'anima di mistici e sciamani, erano ben catalogati, analizzati, inseriti nella fenomenologia della storia delle religioni; ma ben poco c'era che riguardava l'esperienza totale, l'immersione in varchi interdimensionali, quella che stavo facendo grazie ad un maestro unico nel suo genere, ammesso che vi fosse un genere come quello.
Ero avvolto in uno sconfinato silenzio, ne ero assorbito. Forse per spirito di conservazione, richiamai l'attenzione e la necessaria tensione, sebbene confidassi nella bontà di Scandurra che mai mi avrebbe mandato in un luogo da cui non sarei stato in grado di cavarmela, ma ero pur sempre un viaggiatore in una contrada incognita, dove le categorie spazio-tempo, la presenza a me stesso, la coscienza ordinaria, erano rivoluzionate. Avanzavo in quello stato duplice di osservazione, non sentivo il mio peso abituale, camminavo lentamente o forse mi vedevo lentamente camminare.
Dovrei scrivere molto di più di quel che sto qui abbreviando, poiché le tante cose che mi si presentarono meriterebbero una serie di capitoli di un ipotetico libro. Quanto sto ora scrivendo è la premessa necessaria per localizzare il punto dimensionale nel quale si verificò il fenomeno mitico che mi investì: si tratta di un posto reale, da me raggiunto e che influì decisamente sulla mia visione della realtà, sull'interpretazione di casistiche aliene e su come leggere il mondo.
L'aria si faceva fresca. Mi accorsi della presenza di una sorgente, sul limitare del boschetto di destra, e poiché avevo sete, mi diressi verso una polla d'acqua. Piegandomi, immersi cautamente la mano: era fredda e leggerissima. Allora ne raccolsi un po' sul palmo della mano e vi accostai le labbra. Era frizzante e buona, difficile valutarne la composizione. Notai che non vi era sottobosco né cespugli, gli alberi erano simili a faggi, emanavano profumi mai sentiti prima. Intravidi ad un certo momento qualcosa che si muoveva a poco più di cinque metri da me. Una specie di roditore, un topo gigantesco, grosso come un maiale, dal colore marrone scuro, mi fissava e alzava la sua coda anellare. Mi spaventai, lo confesso. Stava masticando non so cosa, poi emise una specie di rutto-squittio baritonale e si girò allontanandosi lentamente, sculettando. Il mio primo incontro con un animale di un'altra dimensione. Se i topi erano così grossi in quel mondo, figuriamoci i gatti. Alzai gli occhi al cielo, profondo, brillante. Finalmente realizzai: era giorno ma non c'era nessun astro. Allora, piano piano, si formò nella mia mente un pensiero, una domanda: dietro quel cielo c'è Dio?Sentii dei fruscii tra le foglie e restai con le orecchie tese per capire che cos'era quel rumore. Quel bosco mi sembrava più grande che visto da fuori. Girai intorno ad un grosso faggio e scorsi un fiume, non più largo di 20metri che divideva il bosco. Placido, sembrava un canale artificiale per quanto era preciso nelle sue anse e argini: un fiume disegnato da un pittore iper-realista. Ma mentre facevo queste elucubrazioni, una vampata di luce intensissima apparve come dal nulla proprio in mezzo al corso d'acqua. Una sfera perfetta dal diametro di 10/12metri, mutava con velocità folle di colore; ne distinsi solo alcuni, rosso blu giallo verde oro, gli altri non saprei come identificarli. Non emetteva nessun suono. Stava lì sospesa a 2metri dalla superficie del fiume ed io, sulla riva e con la bocca aperta, trattenevo il respiro. Stava lì per puro caso? Era un u.f.o. che mi dava il benvenuto? No, quella sfera cangiante, era qualcosa che non aveva nulla a che fare con le mie ipotesi iniziali. Il mito si era manifestato, attraverso un simbolo, una potenza. Elettricità pura, anzi, la sua sorgente.