Chi legge "esamini tutto, ma ritenga solo ciò che è giusto".
La mente non è un vessillo da riempire, ma un fuoco da accendere.
domenica 6 settembre 2009
A VITERBO LA BOTTEGA DELLE MERAVIGLIE
Sono stato introdotto per la prima volta nella bottega magica – una rivendita di frutta e verdura situata nel vecchio quartiere di San Faustino a ridosso delle mura cittadine - del mio maestro, in un momento storico completamente diverso da quello attuale. La vicenda si svolge il 1971, a Viterbo, sonnolento capoluogo italiano che pure amo, storicamente sotto il protettorato di Santa Romana Chiesa, della Democrazia Cristiana e di latifondisti illuminati. Cambiavano i regimi politici, ma l’Istituzione religiosa aveva sempre la sua influenza, il suo fiato pesante e le sue mani umidicce sulle miserande coscienze dei miei concittadini, i quali campavano sotto il giogo di quattro proprietari terrieri (proprietari anche di banche, palazzi, esercizi commerciali, supermercati etc.), artefici del bello e del cattivo tempo e presumibilmente compiacenti verso i chierici. Siccome ogni cittadino credeva di non essere irreprensibile, subiva ma mai protestava, mormorava semmai, si rinchiudeva nel privato, si costruiva un perimetro sociale intorno al suo gruppo di amici e tirava a campare. Il sistema sia esso politico che religioso, da che mondo è mondo, promuove con tutti i mezzi a disposizione l’egoismo e la paura, coordinate necessarie per disegnare una mappa e stabilire un territorio dai confini precisi, inviolabili, come una prigione. Democratica si intende...
Malgrado lo stagnante clima culturale e la piattezza sociale, covava tra i meandri della città un sapere arcaico, magico, retaggio secolare della nostra città sin dai tempi etruschi fino alle conventicole catare medioevali. Oggi quella magia era custodita gelosamente da pochi legittimi adepti e da veggenti, attorno ai quali ruotavano i più disparati clienti per risolvere problemi di salute lavoro amore, conoscenti più o meno interessati, opportunisti (medici, avvocati, notai, poliziotti, commercianti, politici) che mai avrebbero confessato pubblicamente di frequentare siffatti stregoni – che volete, nella mia città l’immagine è tutto –. I custodi del fuoco sacro istruivano soprattutto pochi, selezionati e riservati allievi, vecchi e giovani indifferentemente. La bottega magica, così da me ribattezzata, era unica e distinguibile da altri ritrovi occulti, presenti in città e in provincia. Unica, perché unico era il mio maestro. Distinguibile, perché non aveva nessuno degli elementi stereotipati che si vorrebbero presenti in luoghi simili. Ma egli chi era? Sono sicuro che molti di coloro che lo hanno avvicinato, se non tutti, hanno avuto voglia di porgli questa domanda ma il suo prestigio ed il suo potere erano tali che non osavano formularla apertamente. A volte si trattava di semplici curiosi, altre di persone assetate a cui era stato detto che a questa sorgente avrebbero potuto estinguere la loro sete. Lo shock dell’incontro superava sempre l’aspettativa ed allora alcuni preferivano fuggire piuttosto che entrare in un’esperienza che rischiava di far loro mettere in dubbio ogni preconcetto. All’epoca in cui lo conobbi, era il 1971, non era più giovanissimo; aveva quarantacinque anni, ma ne dimostrava molti di più. Egli univa alla maestosità di un vegliardo l’agilità di uno schermitore capace di uno scatto fulminante; ma per quanto imprevedibili fossero i suoi sbalzi d’umore e sorprendenti le sue manifestazioni, non abbandonava mai una calma impressionante. “Assomiglia - mi aveva detto un mio amico, studioso di filosofia indiana, prima di condurmi da lui - al Bodhidharma... per la sua severità di risvegliatore di coscienza”. Per me, più semplicemente, riscontravo in lui il portamento piuttosto pericoloso di un pirata, uno Jack Sparrow invecchiato dalle miglia e dal rum, utile e determinante compagno quando le cose si complicano; ne aveva l’autorità. Egli sarebbe stato capace di gettarvi nel lago dopo avervi sottratto l’orologio ed il portafoglio e poi di tendervi il braccio per tirarvene fuori. La cosa più buffa è che, appena salvati, avreste sentito il bisogno di ringraziarlo.
La parola “autorità” ha connotazioni talmente diverse da generare malintesi. Diciamo che il mio maestro emanava l’impressione di una forza tranquilla alla quale gli stessi animali erano sensibili. L’ho visto con i miei occhi, cani e gatti lo seguivano per la strada, senza motivo apparente. Quante volte ho visto persone simili a lupi pacificarsi al suo fianco, al punto che avrebbero preso cibo dalla sua mano.
La sua andatura, i suoi gesti non erano mai precipitosi, ma, come quelli di un montanaro o di un contadino, erano legati al ritmo della respirazione. Ricordo il giorno in cui, per il ritardo ad un appuntamento che mi aveva fissato, avevo percorso precipitosamente la via che mi conduceva alla sua bottega. Cominciavo a farfugliare una scusa quando egli lasciò semplicemente cadere su di me queste parole: “Mai affrettare”.
Lo si sentiva carico di un’esperienza quasi incomunicabile. Dipendeva forse dall’aver incontrato nel corso della sua esistenza molte creature di cui conosceva tutte le debolezze e dall’aver fatto della condizione umana un soggetto di meditazione quasi costante? Oppure da un altro motivo?
Se si stabiliva tra lui e voi una certa complicità, gettata come un’angusta passerella sopra gli abissi, essa poggiava non tanto su speculazioni intellettuali quanto su semplici evidenze quali freddo, caldo, altezza, larghezza, ieri, domani, io, qui, ora. Una complicità con il sapore della sincerità, ancorata nel più profondo dell’essere.
Quanti lo hanno conosciuto potranno farlo rivivere a partire dall’opera alla quale egli ha legato il suo nome e cioè tanto dagli scritti di cui è l’autore, in un improbabile italiano – autodidatta e quasi analfabeta, aveva una curiosa capacità di calcolo mentale che però naufragava non appena doveva trascrivere sulla carta operazioni semplici come l’addizione e la sottrazione, per non parlare delle sue lacune culturali profonde come profonda era la sua veggenza - quanto da realizzazioni compiute in altri campi sotto la sua direzione e dietro la sua ispirazione. Bisogna, infatti, sempre risalire alla sorgente. Dopo la nostra, ogni generazione si incamminerà, se lo vorrà, con un materiale che le sarà proprio, verso una nuova lettura del mio maestro. Noi che l’abbiamo conosciuto, non andremo a cercarlo in un archivio, anche se contenesse testimonianze stampate o documenti ufficiali, con la speranza di trovarvi un eco della sua voce. Evocheremo la nostra esperienza, i nostri ricordi più vivi.
Era un uomo assolutamente libero, ogni suo gesto era inimitabile. Noncurante delle convenzioni sociali, avrebbe trattato un re, un barbone, una nobildonna e una bagascia alla stessa stregua: con semplicità, arguzia, umiltà e rispetto. Per lui siamo tutti uguali nelle nostre bassezze così come nelle rare, per la verità, altezze.
Il suo negozio di frutta e verdura era piccolo, si sviluppava in due ambienti poco illuminati. Si respirava un mix di odori pazzeschi: peperoni al fumo di sigarette nazionali, broccoli cotti all’incenso orientale, vino aromatizzato con stucco umido. Il mio maestro fumava come il proverbiale turco, amava un buon bicchiere di vino del consorzio, di quello in bottiglia di vetro col tappo a vite di metallo, il più economico per intenderci, e giocherellava come un bambino ritualizzando l’accensione dei bastoncini di essenze esotiche, dagli aromi indecifrabili ma, così ci garantiva, dalle capacità di neutralizzare le cattive vibrazioni prodotte dalle cattive persone.
Era un uomo di potere. Veggente e mago, utilizzava l’astrologia e gli arcani maggiori dei tarocchi pur sbagliando spesso i calcoli per la stesura di un oroscopo, e interpretando in maniera asistematica le combinazioni delle carte a seconda dei casi. Eppure ci indovinava sempre, incredibile. Il potere che possedeva prescindeva da tecnica ed erudizione, leggeva nel profondo delle anime passato, presente e futuro con semplicità, a volte con un sorriso di consolazione altre con mestizia. Umano nella sua umanità ma misterioso nel suo spirito, a tal punto che preferiva mascherarsi da cialtrone quando gli capitavano persone che volevano ingannarlo, preferendo il disprezzo e la commiserazione dei potenti, che comunque lo temevano. Mi diceva che era meglio per la nostra arte essere sottovalutati e derisi, considerati addirittura truffatori – bricconi divini direbbe Furio Jesi – perché in questo modo il demonio si sarebbe esposto e così l’avremmo fregato. La battaglia che ci accingevamo a compiere era quella eterna, di sempre: il Bene contro il Male. Drammaticamente semplice. Illuminante.
Il mio maestro si chiamava Scandurra e la bottega era la sua propaggine occulta, tangente con dimensioni proibite, lovecraftiane, quantistiche - aggettivi questi che avrebbe respinto al mittente considerandoli paroloni incomprensibili. Dopo infinite peregrinazioni presso ruderi etruschi e templari, dopo interminabili operazioni magiche in case infestate o evocazioni di entità dai regni interdetti, anche a notte inoltrata si ritornava comunque nella sua bottega, a bere un bicchiere di bianchetto e a fumare una cicca in santa pace. Una camera di compensazione per sciogliere le tossine dell’anima, una torre ad alta frequenza pranica per ristabilire una simmetria interna esterna.
Vi racconto un episodio, banale forse, ma che ben inquadra il clima instaurato nel nostro ambiente.
Una sera di gennaio, dopo cena, quando nella mia città vige un coprifuoco tacito sia per il freddo che per le abitudini pantofolaie dei suoi abitanti, mi trovavo ad attendere Scandurra sotto il porticato della piazza principale ove risiede anche il municipio. Era sicuramente una situazione insolita, tanto da far incuriosire una volante della Polizia che passava lì per caso – e se dico per caso è proprio così – e dopo una manovra da telefilm americano mi si piazzarono davanti, a pochi centimetri, facendomi sobbalzare. Con fare intimidatorio l’agente alla guida mi incalzò:
"Chi sei e che diavolo vai facendo qui?".
Schiarendomi un po’ la voce da un groppo in gola, risposi con sincerità imprudente:
"Sto aspettando Scandurra, il fruttarolo di San Faustino, dobbiamo recarci sul ponte del Diavolo, nella Commenda Templare per una evocazione".
Le facce dei due poliziotti sbiancarono e con ben altro tono chiesero curiosamente scusa:
"Ci deve scusare, signore, conosciamo Scandurra, anzi se può ce lo saluti, sono Mancini e qui a fianco c’è il mio collega Ferri. Di nuovo tante scuse e buona notte".
In pochi secondi l’Alfa Romeo sgattaiolò via in un vicolo a sinistra senza por tempo in mezzo. Dopo poco arrivò Scandurra con la sua Cinquecento bianca, puzzolente di fumo e verdura. Gli raccontai l’accaduto in preda ad un ansia terribile e lui mi rise in faccia divertito.
"Angelo mio impara a tené botta, non c'avé paura delli puliziotti, de chi commanna, dei professoroni. A noi chi c'ammazza? Stamo fori dalle mappe geografiche."
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Segnalo Leoniero tra i "sostenitori". Sarebbe il caso di bloccarlo.
RispondiEliminaCiao!