Chi legge "esamini tutto, ma ritenga solo ciò che è giusto".

La mente non è un vessillo da riempire, ma un fuoco da accendere.

venerdì 18 febbraio 2011

LA PICCOLA E LA GRANDE GUERRA SANTA!


Energia e orientamento dell’energia — Gli uomini comuni non soltanto attingono la loro energia da moventi di natura inferiore (le passioni), ma ne subiscono l’orientamento. Anche per gli uomini superiori l’energia proviene dal basso (e di dove potrebbe venire altrimenti per un essere incarnato?), soltanto questa energia è orientata e utilizzata secondo moventi inutili. Non bisogna dunque lottare contro le passioni considerandole come motore, ma semplicemente privarle del timone.

Guerra — L’uragano fa cozzare fra loro i rami di quest’albero. Pure, la stessa linfa circola in essi. Così è degli uomini e dei popoli. Non si stancheranno mai di battersi, finché le stesse radici non si stancheranno di nutrirli. La guerra volge a suo profitto la forza scaturita dall’amore.

Problema dell’uomo — È angelo o bestia? Chi predomina in lui, il cielo o la terra? Ahimè! Se osserviamo la vanità, la gratuità del suo tormento, e quel furore, quella costanza nel fuggire il proprio interesse, ci accorgiamo che sua patria è soprattutto l’inferno — l’inferno, questa sconosciuta capitale che dimentichiamo mentre ci affanniamo a far assegnamento sul corpo o sullo spirito, questa chiave di volta del problema umano!

Sempre più mi convinco che esistono soltanto il cielo e l’inferno, Dio e io. Il resto (quelle povere cause secondarie che, per abitudine, invochiamo con indulgenza: la carne, l’ereditarietà, l’ambiente, e che so ancora...) non è che accessorio, occasione, forse pretesto.

Inferno — Alcuni lo concepiscono come la rivincita eterna dell’amore disprezzato e fattosi furioso. Trovo in esso piuttosto la prova della disfatta suprema, del supremo abbandono dell’amore. Dio vi si lascia rubare la sua necessità. Certe creature possono dire eternamente alla fonte eterna: Non sei la mia finalità. Dio, accettando l’Inferno, si è privato, in qualche modo, al di là del possibile. Si può mai concepire questo cammino che il dannato crea? Cammino abbastanza rigido, solitario e inerte per non volgere verso Dio la sua tortura? La fatalità nasce, quando l’uomo ruba a Dio la necessità della sua attrazione per conferirla al nulla. La pienezza della fatalità si manifesta all’inferno. Là, l’uomo crea in lui con i suoi rifiuti una folle e mostruosa necessità che provoca per sempre il fallimento della necessità dell’amore.

Maleficio e fecondità della sofferenza — Chi non ha mai sofferto, che cosa conosce? che cosa vale? Ma se noi lodiamo la sofferenza come ferita, la respingiamo quale infezione. Benedetto sia il sangue che scorre, a condizione che non si trasformi in pus, e che i vermi della menzogna e del risentimento non si nascondano sotto la piaga.

Quell’uomo ha un rancore, un odio da sfogare... Su chi farà ricadere questo peso? Sull’individuo che lo ha offeso? No, davvero. Ma sull’essere più debole e più devoto che troverà vicino a sé . È legge di questo mondo che ogni cosa ricada sul più debole: si arriva, perfino, a fargli espiare, a forza di confidenze e di lamentele avvelenate, gli affronti subiti dai più forti.
Ciò che significa: siamo sempre pronti a vendicarci sull’essere debole che ci ama degli oltraggi che ci infligge l’essere da noi odiato.

Non conosco categoria di uomini più ripugnante di quegli esseri morali, inaspriti dalle sofferenze e dal dovere compiuto, che si atteggiano a creditori del destino. A sentirli sfogare la loro rancida soddisfazione, vediamo Dio colpevole, umiliato, quasi accusato. Tali esseri di dovere e di sacrificio hanno talmente meritato il paradiso, senza ottenerlo, da sentirsi in diritto, ora, di rifutarlo: la loro «virtù» basta a sé stessa. Offro questo pensiero come contributo allo studio delle sorgenti dell’ateismo morale.

Inferno — Ciò che nessuno ancora ha osato: esprimere con il simbolo l’ultima testimonianza della creatura a Dio, la testimonianza del dannato e la sua disperazione che travolge anche la ribellione: un poema dove un dannato parli a Dio attraverso montagne d’impossibilità.
L’inferno, infatti, è ancora amore. Il verme che non muore mai, è ancora Dio, l’ineffabile traccia di Dio, l’immagine affamata di Dio la quale, di fronte a Dio che si offre, indietreggia nell’impossibilità. Tutto l’inferno è racchiuso in questo rifiuto. L’amore prigioniero, il fuoco sotterraneo (che profondità in questo simbolismo: nessun vulcano liberatore si offre a questo fuoco), un’eternità di amore soffocato. Qui l’uomo sopporta da solo ciò che Dio solo può accogliere, ciò che Dio solo può portare, l’indistruttibile amore radicato nell’uomo: qui, l’uomo pesa con tutto il suo peso su sé stesso. La inconcepibile trasmutazione si è avverata; l’amore non si dona più, non risplende più, si cristallizza tutto in me, compatto, indissolubile, ermetico. Le volte dell’inferno sono fatte di questi cristalli. L’io non ha più spiragli, il dolore non ha più scampo. Tutto l’essere umano — tutta I’impronta divina — è prigioniero di un’eterna negazione.
Dio offre ancora sé stesso, sempre. E l’amore prigioniero, l’amore che si volge contro sé stesso, si dibatte nella sua gabbia viva. L’animale affamato che si nutre e che si inebria della sua fame, l’animale incatenato che crea e adora le sue catene, contempla per sempre, senza un lampo di sonno, (bisogna amare per dormire: il sonno è un abbandono) la preda irraggiungibile che raduna in sé tutte le liberazioni. Quando l’amore non può più ricambiare, conosce, nell’essere amato, la suprema tortura. Tutti i rancori del dannato verso Dio sono racchiusi in queste parole: Perché tu mi ami...
Confessione dell’Atlante infernale: reggo ben altro che un mondo, reggo solo l’immagine di Dio.

La distanza che ho superato per disertare la tua presenza — questa distanza che il tuo richiamo ha sempre vinto — mi dà la misura della tua immensità e del tuo amore. Ciò che di me ti ha riconosciuto, ha scandagliato i tuoi abissi, mi ha inondato di questa luce crudele, abbacinante, definitiva, sta nella mia ultima fede che guata attraverso la mia ultima disperazione, sta in questo mio tremendo miscuglio intimo tra l’ingratitudine verso Dio e la speranza in Dio... Ti conoscevo già, per aver dormito sul tuo cuore, ma il giorno in cui ti ho riconosciuto cosi da lontano, mi è sembrato di scoprirti per intero, di vederti per la prima volta...

Un abisso d’impossibilità ha dovuto scavarsi tra noi, perché io potessi comprendere la tua bellezza, la tua innocenza, la tua vita, e assaporarne, disperato, le profondità. Più mi resti inaccessibile, più sento e indovino ciò che sei, Signore! La tua immagine si immobilizza, per me, sullo schermo dell’impossibile.

Per me, tu fosti il nido e il tetto, o Signore. E sei diventato il vuoto e la tempesta. Barcollo nell’inclemenza degli spazi aperti. Eccomi: freddo, fango, tenebre e l’angoscia dell’atomo abbandonato. E la spina remota del ricordo, l’immagine soavemente velenosa di felicità sepolte. Via! I tempi del nido son passati, la nostalgia del nido è miraggio e tradimento. L’immensità ti chiama: lo spazio è la patria delle ali. Un nuovo amore germoglierà per me nello strazio della bufera.

Quel vento che inebria le mie vele mattutine, quel vento che tutto prometteva, ha portato al naufragio la mia barca. Ma perché maledirlo? Lo stesso vento, altre barche più forti spingerà verso felici rive!

AFORISMI TRATTI DAL LIBRO DI GUSTAVE THIBON 'IL PANE DI OGNI GIORNO'


1 commento: